
Anche diversi paesani fra le due guerre, e molti Trevisani dopo, hanno fatto questo pesantissimo lavoro come stagionale.
Le grandi piantagioni di canna vengono coltivate al nord dello stato del Queensland, dove le temperature in alta stagione si avvicinano più ai 40° che ai 30°, e con l’umidità costante sopra il 90%, una combinazione che gli Australiani chiamano “steaming heat” difficile da tradurre, letteralmente: “caldo che ti evapora”.
Raggiunto il momento della raccolta (che può durare mesi), a

Dovevano bruciare per due essenziali motivi: il primo era per far scappare o ammazzare quei serpenti ultra velenosi che, vivendo in quelle regioni, certamente nidificavano fra le canne. Il secondo era per alleggerire il carico di lavoro, si bruciava tutto il superfluo, foglie e quant’altro, rimaneva la canna ancora calda, appiccicosa e affumicata, ma più leggera.
Dall’alba fino al tramonto, erano le loro “otto ore” lavorative, usavano un coltellaccio che assomigliava alla classica falce del “manifesto”, ma molto più pesante. Tagliare e fare fasci, stare attenti a qualche serpente ancora vivo, tagliare e fare fasci. Raccogliere quei fasci e, con l’aiuto anche di scale, caricarli sui carri. Poco importa quanto sono pesanti, appiccicosi, o con qualche foglia ancora tagliente che rasa braccia e viso.

Errore: i padroni sapevano bene di che stampo erano fatti queste macchine viventi. Il lavoro era dato a cottimo: più raccoglievano più guadagnavano, più guadagnava (e la macchina vivente sperava) più presto i sogni si sarebbero avverati. Sudare sangue era il solo drammatico destino che si aspettavano in quegli anni.
Anche per questo, meritano più rispetto.