05 dicembre 2010

Domenica 1: Il tormentato orgoglio dell’emigrante che scrive a casa: “Qui va tutto bene”

L’uomo, lo sappiamo, è il più portato fra le “creature” ad integrarsi in nuove realtà, il migliore è senz’altro l’emigrante, o meglio è il migrante, se quest’ultimo già parte con l’idea di stabilirsi nella nuova e per di più sconosciuta realtà! Le possibilità di trovar lavoro vicino casa erano scarse, dunque per far campare la famiglia qualcuno doveva decidere di partire a cercare fortuna lontano.
In coscienza eravamo preparati al “sacrificio della lontananza” perché questo era l’amaro dovere che il destino ci serbava ai quei tempi. Dunque ogni famiglia aveva uno o più membri dedicato a questa nobile causa, pertanto sotto certi aspetti “a partire” appariva normale.
Ora pensiamo a questa gente che, essendo lontana da casa, vuole e qualche volta “deve dar notizie” ai propri famigliari di come “vanno le cose”.

Abbiamo evidenziato dei casi in cui molti di noi hanno battagliato con un destino avaro di soddisfazioni e pieno di incognite. Ti aggrappi all’esperienza di qualche paesano ma senti che non é sufficiente.
Per “riuscirci” prima o poi ci si deve arrangiare: ma come si fa? Si spera che con il tempo tutto si risolva.
Prima viene l’handicap della lingua da superare, la maledetta lingua che non ti dà tregua, non la parli e non la capisci. All’inizio quando tutto è un “buco nero”, tu non parli e i tuoi interlocutori capiscono che se anche ti bestemmiassero addosso sarebbe fiato sprecato, quello ironicamente risulta di essere il miglior periodo. Il problema stressante viene più tardi, quando passi la notte insonne per cercare di comporre delle frasi che il giorno dopo ti potrebbero aiutare a comunicare qualcosa che ti sta a cuore.
Purtroppo l’interlocutore ti risponde incomprensibilmente, e allora non ti resta che chiudere con il solito imbarazzante: ja o yes o oui di turno, sperando che la tua risposta sia positiva.
Poi c’è il cibo: l’alimentazione è un fattore determinante sulla qualità della vita quotidiana dell’emigrante. Un piatto che si possa cucinare con degli ingredienti che assomigliano a quelli abituali può veramente fare da collante con usi e costumi lasciati al paese, farti sentire un po’ a casa. Una spaghettata condita con un sugo veramente al ragù con sopra un formaggio veramente parmigiano, un buon bicchiere di vino rosso, il profumo del caffè fatto con la moka, tutto ciò alla fine è il massimo che ci si possa aspettare.
Se poi c’è la possibilità di consumare sì un pasto frugale, ma di così alto valore simbolico, in compagnia di amici o paesani o di qualche parente, allora davvero il tutto non solo mette di buon umore ma trasmette messaggi di benessere molto positivi e durevoli al corpo, ma più importante ancora, rafforza psicologicamente lo spirito e lo stato d’animo.
Fattori importantissimi che aiutano ad affrontare le avversità che specialmente nei primi anni abbondano. Purtroppo non era così facile trovare quel minimo di prodotti desiderati. Chi rimaneva in Europa, specialmente in Svizzera, non se la passava poi così male, anche negli anni '50–'60 si potevano trovare dei negozi forniti di derrate abbastanza compiacenti ai nostri usi. Per il resto d’Europa non ne parliamo, il rifornimento si faceva solamente quando si tornava al Paese.
Per chi invece sceglieva l’Oceania, o prima ancora le “Americhe”, era un vero e proprio disastro. No pasta, no pelati, no olio d’oliva, il burro era solo salato, no macinato che non sia quello dell’hamburger, no carne di maiale, no coniglio, no carne bovina venduta con taglio conosciuto, no vino, no grappa, no acqua minerale, no insalate nostrane, figuriamoci il radicchio, ecc. ecc.
In più c’era il fattore “lavoro” con i suoi alti e bassi che sappiamo. E poi c’era l’abituarsi ad usi, costumi e ambiente” così differenti da come eravamo abituati: no caffè espresso, pochissimi ristoranti (anche se le condizioni finanziarie non ci permettevano di frequentarli), no bar, no accoglienti osterie, sì ai “pub” dai grandi saloni con le pareti spoglie rivestite solo da lucide piastrelle di smalto giallo, dove tracannavi birra appoggiato al bancone centrale, facendo sempre ben attenzione al tuo comportamento di circostanza verso gli altri acquirenti, specialmente se fra loro c’erano delle ragazze.
Poche le Chiese da frequentare, e quelle esistenti erano di un’architettura che non attirava. Ecc. Tutto ciò era abbastanza frustrante, ma questo non doveva apparire sulle lettere indirizzate a casa! Loro ricevevano le rimesse che si spediva e dovevano stare tranquilli! Pensierosi per il loro caro lontano da casa sì, ma tranquilli.
Solo le cose positive venivano loro accennate, ma non cosa c'era dietro quel traguardo momentaneamente raggiunto. Sentimenti, sacrifici, esperienze, stati d’animo, nostalgia, solitudine: tutto veniva sacrificato sull’altare della continuità, “del tirar avanti” ma specialmente dell’insensato orgoglio.
Pertanto quelle benedette lettere iniziavano sempre con: “Miei cari qui stiamo tutti bene……
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Anche per questo meritano più rispetto.

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